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La pittura tra Oriente e Occidente nelle Marche

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Noi delle Marche, lo diciamo spesso,  siamo plurali, siamo un misto di popoli che spaziano tra Oriente e Occidente per via della costa,  dall’interno provenivano i Piceni e i Romani, da nord i Celti e dal mare i Greci. Questa cosa la si avverte anche nell’arte; spesso troviamo nelle piccole chiesette di mare, come quella di Santa Maria in Portonovo, nelle vicinanze di Ancona,                                                                               Grigorj Meltsev , 1938

dove i ritratti delle Madonne  hanno la fissità ieratica  delle iconografie orientali, estremamente lontane dalle Madonne occidentali: piegate di lato, con occhi amorevoli osservano in adorazione l’infante con le fossette in un tripudio di angeli e santi ai suoi piedi.
E’ una imperatrice invece. E’ la tutta santa, ovvero la Panagia, calma e irreale con occhi grandi e asciutti.  Questa cosa della differenza tra una pittura e l’altra ci dà il segno di come anche si interpreta la vita in generale, perchè la pittura occidentale di solito è basata sull’orrore o sul pianto: deve commuovere. Pensiamo al Caravaggio:  deve suscitare un’ emozione, ovvero muovere dentro e lasciare un segno, il segno di Dio e della Chiesa che lo promuove,  mentre nella pittura orientale non c’è alcun tentativo di attaccare discorso con l’osservatore, non ci sono smancerie di sorta: noi siamo qui e loro sono da un’altra parte con tutta la forza e la potenza di qualcosa che non possiamo raggiungere.  Per gli orientali ortodossi   lo Spirito Santo  procede dal Padre attraverso il  Figlio, mentre nel dogma occidentale cattolico lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio. Ciò significa che il Logos, fatto materia, è innalzato allo stesso livello del Principio divino.  Che quindi l’uomo, divinizzato, può essere salvato già in terra. Ecco che il  Cristo occidentale espone  le sue ferite, è umano,  il  Cristo orientale non ci pensa nemmeno e  siede in trono nel suo  immobile splendore.
Perchè Lui è il trascendente, e l’Uomo, finchè è immerso nella materia, seguita  a patire. Non c’è riscatto, continua a soffrire dei mali inevitabili del mondo. Queste immagini iconiche fisse, dunque, non hanno emozione.

Nell’arte occidentale questa fissità ieratica la troviamo forse nell’unico pittore che aveva moltissimi contatti con l’oriente bizantino: Piero della Francesca. E non a caso era il pittore anche dei Malatesta, ovvero della casata che più teneva a identificarsi con la dinastia imperiale di Costantino, essendo una di loro sposata a un Paleologo.   Nelle sue pitture infatti le icone sono impassibili. Manca ogni traccia di apostrofe: sguardi immobili, senza espressione: non sono di qua su questo piano fisico e non aspirano ad esserlo. La teologia bizantina, attraverso la mistica delle sue discipline, ricondurrebbe alla tradizione ancestrale dell’oriente platonico e gnostico, quasi alla rinuncia buddista del riscatto dal male. Le anime non si salvano, dunque, e la base teologica profonda è solo una questione di parole. Una sorta di mantra. Molti vescovi e molti monaci bizantini imparavano sin dall’infanzia a ripetere una formula di misteriose parole e il loro onore nazionale era basato sulla ripetizione di quelle parole.
E’ bene ricordare che nelle  Marche plurali insomma  quasi tutta la costa  a nord  di  Ancona apparteneva alla Pentapoli bizantina: comprendeva Ancona ( ma anche Numana)  Senigallia, Fano Pesaro e Rimini.

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