La bellezza del libro: Giorgio Mangani
I suoi libri sono capolavori di resistenza per sovvertire il piano inclinato in cui scivola oggi il settore dell’ editoria mentre prova con vera grazia a raccontarci di una regione che sento perennemente in bilico tra lo spirito di avvilimento e quello di esaltazione.
I suoi personaggi non seguono la corrente della facile narrazione, il suo lavoro editoriale ( che è poi il nome della casa editrice che dirige ) è un lavoro di ricerca storica propositiva, con risultati incoraggianti per tutti coloro che sentono di poter dire qualcosa di diverso dal pensiero unico dilagante.
I suoi sono libri di senso, oso dire sensuali dunque, che c’ indirizzano verso un’idea di regione non più astratta al punto di provarne a volte un vago senso di smarrimento, ma concreta e coesa nel rappresentare quel paesaggio interiore che abita la nostra anima, simile al fluire delle colline.
Ed è in questo mood che i suoi personaggi esprimono se stessi , negli alti e bassi delle loro esistenze, dando voce a quello spirito che è presente coralmente in tutti noi marchigiani.
Decido di andarlo a trovare nella sede della sua casa editrice allocata nel centro storico di Ancona, mi riceve con animo conviviale, mi sento di potergli fare tutte le domande serenamente, con quella mia curiosità di sempre che più mi caratterizza.
.
Lorenza Cappanera: a che età ha fondato la casa editrice Il Lavoro Editoriale?
Giorgio Mangani: avevo 24 anni e finito l’università, con tre miei compagni di scuola abbiamo
dato il via alla nostra casa editrice.
L.C. In che anni siamo?
G.M. Era il 1980. All’inizio in maniera un pò hobbistica, poi nell’85 costituimmo
una SRL e da lì abbiamo deciso di farlo come lavoro. Io ho continuato anche
a fare delle altre cose, come insegnare all’Università per vent’ anni.
L.C. Dove esattamente ?
G.M.Ho insegnato in diverse università: Ancona, Urbino, Milano, Iulm, Bologna.
La materia era: Geografia culturale.
L.C. Geografia culturale? Mi può spiegare meglio?
G.M. L’abilitazione è in geografia economica e politica quindi diciamo che la mia
materia è sempre stata quella della cultura legata ai luoghi. Anche ad
Architettura di Bologna nella sede di Cesena, ho insegnato Geografia del
paesaggio. Sono andato in pensione nel 2023.
Sempre nel campo culturale sono stato Direttore del Sistema Museale della
provincia di Ancona per una quindicina d’anni, il cui progetto nasceva
dall’associazione di vari enti locali attraverso il quale si gestiva in maniera
cooperativistica i diversi piccoli musei, che in genere non hanno mai molto
personale e risorse.
L.C. Il Sistema museale era su base provinciale?
G.M. Sì. Ce n’era uno a Macerata e un altro ad Ancona. Lo volevano fare a Pesaro e
Urbino, ma poi hanno abolito le province e la competenza è passata alla
Regione. I Comuni ce l’hanno, ma solo in area comunale. La Regione
contribuisce con i finanziamenti.
E comunque la mia storia coincide con il tentativo di far riconoscere questa regione
come un’area con una sua cultura specifica e integrata, cosa che è difficile
perché ogni 15 km cambia tutto: una biodiversità culturale che arricchisce
ma che è anche un ostacolo per un progetto cooperativo.
Il mio modo di fare politica è stato questo: non militare nei partiti, ma
costruire delle relazioni tra città, tra province, e territori. Per un po’
la situazione è migliorata, certi libri hanno avuto delle funzioni: per esempio nel 1989 abbiamo
pubblicato “L’idea delle Marche”, che avuto un grande successo, giungendo
alla terza ristampa.
Ad un certo punto è diventato il libro che studiavano tutti quelli che dovevano
fare gli esami al concorso regionale dove c’era una domandina sulle Marche e
sulla cultura regionale. Gli allievi se lo studiavano perché dava l’idea
delle tematiche.
L.C. Qual era quest’ idea delle Marche?
G.M. Erano diversi autori che raccontavano l’arte, in che modo viene espresso il
concetto delle Marche nella letteratura, nell’antropologia, persino
nell’antropologia fisica. C’erano le varie tipizzazioni, caratterizzazioni.
Veniva citato Leopardi, un poeta caratterizzato dalla malinconia e veniva
fuori una contaminazione con l’idea del marchigiano malinconico. Nei
giornali del tempo nella quale veniva rappresentato il marchigiano poco
combattivo, cioè un corpo docile anche rispetto al potere.
Una sintesi, un’analisi dei caratteri di questa regione.
L.C. E quale tipizzazione ha vinto?
G.M. Alla fine, soprattutto grazie al metalmezzadro dei Merloni, ha vinto il
modello del marchigiano grande lavoratore che prima dell’Unità era pensato
al contrario. Un modello portato dai Piemontesi, che, come si dice, ha
attecchito.

L.C. E nella costa? Ad Ancona non c’erano industrie, ma il commercio
marittimo…..
G.M. Tutta l’economia era marittima. Eravamo quasi come Anversa del
Tre-Quattrocento.
I mercanti anconetani avevano gli uffici nei porti di Smirne, nella Turchia
e a Costantinopoli erano di casa. Ho fatto delle ricerche e sembra che nel
Quattrocento ci fosse a Genova un quartiere che si chiamava Ancona e che era
il posto dove abitavano gli anconetani perché la città ligure era l’alleata
principale contro la comune avversaria Venezia che cercava d’impedirne i
commerci.
Modello poi replicato dagli inglesi nel Settecento. Il monopolio non era
fondato sulle leggi o sulla sopraffazione economica ma direttamente sulla
forza militare navale.
All’epoca gli anconetani avevano i fondachi come Venezia. Le case avevano
sotto il deposito delle spezie, delle merci che producevano. Quindi c’è
stato un tempo in cui Ancona era veramente fiorente, il Quattrocento è stato
il secolo più vivace.
L.C. E secondo lei Ancona godeva di una propria indipendenza non solo economica ma anche di
pensiero?
G.M. Di pensiero probabilmente sì anche se non era un centro che coltivava
particolarmente la cultura, ovvero l’originalità del pensiero. Perché come a
Venezia il controllo politico era molto forte, però diciamo all’interno di quel
paradigma lì c’era una certa capacità di una visione economica e
commerciale.A Venezia non era tanto diverso, solo che c’erano persone che avevano poi
una ricchezza enorme.
L.C. Beh, c’erano anche gli stampatori.
G.M. Era una cultura commerciale, non culturale. Stampavano per vendere.
L.C. Anche se avevano un’accademia e vi parlavano solo in greco, tipo Manuzio?
G.M. Avevano anche una visione di sviluppo. Ancona un po’ meno, ma comunque era
anche un luogo di mercanti visionari come Ciriaco Pizzecolli che ha inventato
il commercio delle opere d’arte. L’Umanesimo è arrivato grazie a lui.
Regalava, finanziato dal cardinal Bessarione, documenti, monili, sculture a
monarchi, a grandi personaggi. Bessarione lo sosteneva perché voleva
costruire un’alleanza contro i turchi, tra i maggiorenti che stavano nelle
aree dello Ionio e del mare Egeo.
Poi Ciriaco ha visto che il meccanismo funzionava e che molti erano anche
disposti a comperarli e quindi ha costruito un mercato e stoccava questi
materiali ad Ancona e poi li rivendeva.
Successivamente è diventato curatore di collezioni di gemme per qualche
cardinale e altri grandi personaggi. In seguito divenne antiquario.

L.C. Era anche un bravissimo disegnatore.
G.M. Disegnava bene. Le prime cose che sono arrivate qua in Occidente dei
monumenti greci le ha portate lui.
L.C. Che fine ha fatto la maggior parte di questi disegni?

G.M. Sono scomparsi, si dice che siano finiti nel Quattrocento in un incendio
della biblioteca di Pesaro degli Sforza. Probabilmente sono finiti
nell’ambiente napoletano visto che la sua famiglia era originaria di Napoli e lui ci
ritornava spesso.
L.C. Gli anconetani sono proprio sfortunati perché con i disegni di Ciriaco Pizzecolli, quelli rimasti che sono
bellissimi , si potrebbero anche realizzare delle copie, allestendo una mostra.
G.M. Io ho proposto diverse volte con diverse amministrazioni comunali di fare
una grande mostra su Ciriaco, ad Ancona e in Grecia ad Atene. Ho anche un
mio amico che sta al Centro nazionale della ricerca di Atene da tanti anni.
C’erano anche i finanziamenti , poi l’arrivo del Covid…..
L.C. Ma è un progetto morto oppure si può rimettere in piedi?
G.M. Se qualcuno lo vuole rimettere in piedi siamo pronti , però fare una mostra
oggi costa veramente molto. Del resto quando ho fatto l’assessore alla
cultura del Comune di Ancona e il presidente della Mole Vanvitelliana,
abbiamo dato il via ad una stagione di grandi mostre: Traiano ai confini
dell’Impero, sull’artista Cucchi, il millenario di San Ciriaco.
L.C. Una mostra su Ciriaco Pizzecolli con un collegamento con Dèlos sarebbe bellissimo.
G.M. Ad Ancona ho frequentato il liceo classico che è intestato a Carlo Rinaldini
che è un matematico e non è neanche un classicista tra l’altro nemmeno così
famoso. Diciamo: Pizzecolli è il fondatore delle scienze antiquarie e dell’archeologia mondiale
e noi di Ancona neanche lo consideriamo.
L.C. Il suo libro su i due Ciriachi anconetani che sono accomunati dal fatto di non essere
conosciuti è molto bello. Si voleva Ciriaco come personaggio internazionale, un
personaggio romano, orientale. Bellissimo.
G.M. Assolutamente si. Ciriaco Pizzecolli gira tra i grandi commercianti
del’Egeo, alcuni dei quali genovesi, alcuni veneziani e francesi. Rimane
mesi alla corte del re dell’Epiro, ne diventa amico e familiare e convince
la Corte a fare un’alleanza fra loro sotto l’egida del Papa per andare
contro i turchi. Alcuni di questi grandi patrizi erano già cittadini
dell’impero turco, versavano le tasse e avevano un fatturato pari a uno
Stato. Erano famiglie che controllavano porti, basi militari, avevano dei
piccoli eserciti, erano commercianti militarizzati che tenevano il
territorio, amministravano la giustizia. Ciriaco propone un’alleanza dicendo
che quando sarà il momento si dovrà combattere per la libertà dai turchi.
Sono due anni di viaggi. Controlla le infrastrutture che potranno servire in
una futura guerra. Contatta Venezia per far riparare l’istmo di Corinto. Una
via che potrebbe servire in tempi di guerra. Nel fare questo si ferma a
vedere i luoghi classici, raccontati da Omero, dai grandi storici e geografi
greci.
Raccoglie documentazioni, riportando disegni o gemme ai re, ai banchieri,
per dimostrare che la nostra identità culturale è occidentale, e lì ha il
suo tesoro, il suo repertorio, la documentazione vera.
Quest’idea dell’Occidente che noi difendiamo è nata in Grecia, l’ha
letteralmente inventata Bessarione , come strumento
propagandistico per convincere l’Occidente a finanziare una campagna
militare che salvasse l’Impero bizantino e Ciriaco interpreta, come
mandatario, come agente del Cardinale, questa strategia. Perché lui
sostituisce il potere delle reliquie cristiane con delle reliquie pagane.
La narrazione è quella dell’identità occidentale in Grecia che sostituisce
la narrazione della fede religiosa. E quindi in Occidente nasce l’Umanesimo
perché tutti cominciano ad apprezzare questo tipo di cultura. La campagna si
farà, con esito negativo, ma nel lungo periodo le idee di Bessarione e
Ciriaco si consolidano in Occidente.
L.C. S’ introduce un modello culturale da zero, in pratica.
Ma ritornando invece alle Marche , quindi ai
Piceni: è grazie a loro per cui noi siamo la regione dei mille campanili, giusto?
Questi paesetti multicolori e multiformi sparsi sulle colline: perché i Piceni non
amavano vivere in città. Come lo chiamano? Sinecismo.
G.M. Le popolazioni italiche, pre-romane, adottavano questo paradigma di vivere
in piccoli borghi.
Gli Etruschi e i Romani, erano diversi, tant’è che erano legati ad un
istituto .giuridico differente, perché dentro le mura c’era una legge e fuori
le mura ce n’era un’altra.
I due fratelli Romolo e Remo si ammazzano perché uno ha scavalcato il limes,
perché la narrazione in questo caso si deve fondare sul fatto che c’è un
regime giuridico dentro la città e un regime giuridico fuori della città.
Fuori, il padre, insomma il proprietario dell’Ager, faceva il bello e il
cattivo tempo, un po’ come un proconsole o il comandante di una nave. Dentro
la città l’ordinamento era più mediato da istituzioni, contrappesi, anche se
il pater familias aveva teoricamente dentro casa il potere di vita e di
morte.
L.C.Quindi noi non siamo più Piceni?
G.M. La tradizione italica è quella di vivere nei paesi in maniera distribuita,
un atteggiamento che hanno gli stessi germani. Si tratta di una tradizione
molto diversa dal modello urbano sia greco che etrusco e romano. Insomma il
modello diffuso probabilmente è rimasto, adesso pensare che ci sia una
continuità dai Piceni fino a noi non saprei, però sicuramente è un modello
che i romani hanno cercato di contrastare. C’è un libro emblematico degli
inglesi sull’effetto di angoscia che nel mondo antico colpiva le popolazioni
locali sull’ansia della perdita del paesino, del villaggio:
Laurence Ray, Joanne Berry, a cura
Cultural identity in the Roman Empire, London and New York, Routledge, 1998
in particolare il cap. K. Lomas, Roman imperialism and the city in Italy, pp 64-78
G.M. Il ruralismo marchigiano è più recente, da noi la campagna e il podere hanno
plasmato la nostra tradizione culturale, tanto che negli anni Ottanta ho
pubblicato un libro sul ruralismo scritto da un irlandese.
In quegli anni nella casa editrice eravamo in tre e abbiamo fatto tanti
altri colpi.Tra l’85 e il ’90 abbiamo cominciato a pubblicare anche testi di
letteratura, non solo libri di storia legati alle banche. A quei tempi
alcuni scrittori erano marchigiani e alcuni di fuori.
Quest’attività ha avuto la sua esplosione negli anni Novanta , ma c’era dietro un
lavoro di sei sette anni intensi che hanno fatto la base, con tentativi fortunati
e anche con qualche operazione andata male. Nelle letteratura italiana
c’erano scrittori importanti e non c’era spazio per i giovani esordienti. Un
motivo in più per provarci..
Con Pier Vittorio Tondelli, che è diventato amico nostro, abbiamo iniziato a
collaborare.
Abbiamo messo in piedi la collana che si chiamava Under 25 che pubblicava
ogni anno una raccolta di giovani scrittori di racconti che avevano appunto
meno di venticinque anni. È stato un grande successo.
E poi c’è “Jack Frusciante uscito dal gruppo” quello di Enrico Brizzi che ha
venduto milioni di copie, quaranta traduzioni in tutte le lingue, compreso un
film. A un certo punto abbiamo ceduto i diritti a Baldini & Castoldi perché
non eravamo in grado di stare dietro alla distribuzione, alla ristampa che
erano frenetiche e con tempi anche quotidiani.
Dal ’94 al ’98 sono stato assessore alla cultura del Comune per cui sono
mancato quattro anni e c’è stato anche questo problema.
Quindi abbiamo deciso di cedere come marchio anche TransEuropa e io sono
rimasto con il Lavoro Editoriale.
L.C.Di cosa si occupa principalmente la casa editrice ora?
G.M. Quando tu sviluppi un prodotto bisogna che lo accentui, come la
caratterizzazione del marchio, quindi ho ancora accentuato la
caratterizzazione marchigiana con libri, cataloghi di mostre, libri sui
proverbi, la storia locale. Ancora continuando a lavorare sulla costruzione
di questa cultura regionale.
Però naturalmente la cultura regionale ha bisogno anche delle politiche
pubbliche che vadano in quella direzione e la Banca delle Marche faceva i
libri con gli editori di Milano e io dicevo di costruire un progetto. Invece
facevano questi “cassapanchi” che servivano per fermare le porte, abbastanza
inutili. Il linguaggio usato era specifico ed elitario, mentre le diffusioni
erano importanti anche di cinquantamila copie. Quindi poi alla fine anche chi
magari riceveva il libro e avrebbe potuto anche sfogliarlo, leggerne un po’,
c’erano le figure, insomma poteva essere catturato, poi alla terza pagina lo
lasciava lì e questi libri finivano nei cruscotti delle macchine e negli
uffici di attesa.
L.C. Mai aperti insomma
G.M. Esatto. Voglio dire che pure quei fondi, che erano tanti e quei libri, che
in molti casi erano il libro di Natale, potevano anche offrire l’occasione per
fondare un’iniziativa più culturale. Anni dopo proposi di riprendere questi
materiali e di farne delle edizioni economiche, i cassapanchi da quattrocento pagine
potevano anche essere riassunti, c’erano diversi argomenti, fare delle cose
da quindici euro. Ma non è passata l’idea, perché questi mondi vedevano il libro
come un feticcio o come i cioccolatini da regalare a Natale.
L.C. Che futuro c’è allora per la l’editoria? Vedo che c’è, intanto c’è stato
tutto l’esplorare dell’ebook, no?
G.M. Mah, il cartaceo rimane perché aiuta la memorizzazione.
Mentre queste pagine sotto vetro sono tutte uguali, non creano un
meccanismo di memorizzazione analogo e vedo anche giovani
che tornano un po’ all’oggetto.
Per adesso anche il cartaceo funziona, d’altra parte io faccio un certo tipo
di libri.
L.C. anche molto belli…
G.M. Sì, essendo libri su temi legati alle Marche con un pubblico di gente
cresciuta, diciamo di nicchia, negli anni ’80-’90. Potrei dire che gli
potevo mandare gli auguri di Natale ai lettori, nel senso che io li avevo
identificati come tipologia. Molti erano professionisti ed era gente che
voleva, come i collezionisti, averli tutti. Era un lettore
particolare…pensando che sarei morto probabilmente presto, come casa
editrice intendo, volevano fare come la collezione dei francobolli.
L.C. Ma c’è riuscito poi alla fine a fare, a legare tutte le realtà culturali?
Cioè, che funzione ha avuto in questo senso la sua casa editrice?
G.M. Non posso sostenere il controfattuale, perché se non ci fossi stato
bisognerebbe sapere come sarebbe andata, però se c’è un po’ di attenzione
per una regione nella sua complessità è anche per il nostro lavoro e le
nostre iniziative fatte in tutta la nostra storia editoriale e qualche cosa è
rimasto.
Quando ho cominciato questo lavoro, i libri non analizzavano le specificità.
A me interessa sapere come i concetti si siano inseriti nelle Marche e si
siano sviluppati. Non interessa come fenomeno in generale ma se parlo di
classicismo vorrei conoscere come questo ha influito sulla nostra
architettura. Una narrazione che può sfuggire ad un editore che non vive le
Marche e non è di qui.
L.C. Di tutti quelli che ha scritto ed editato , qual è il libro che le piace di più?
G.M. Sicuramente il Palmiro di Luigi di Ruscio è uno dei libri più belli e più
divertenti che abbiamo pubblicato. È un libro veramente vivo, da rileggere
anche adesso. Poi certamente Silvia Ballestra che poi ha fatto carriera con
Feltrinelli, certamente Enrico Brizzi, anche se era bolognese.
Poi abbiamo fatto la Storia della cucina delle Marche che ha vinto il
secondo premio nel 2010, come miglior libro del mondo su centosessanta paesi.
Siamo andati a Parigi a prendere il premio. Quel librone che finanziò la
Regione coprendo i costi, questo per dire che il pubblico potrebbe fare
molto nel settore dei libri. Abbiamo venduto tutte le copie e ora vorremmo
ristamparlo in edizione economica.
L.C. Anche il libro su Gerardo Cibo, dilettante di botanica e pittore di paesi.

G.M. La cosa interessante è che Cibo era un botanico, alchimista e medico che si
faceva le medicine.
I Cibo erano sostanzialmente protestanti, vedono nelle Marche una
religiosità popolare e quindi rappresentano, secondo il modello olandese,
questa religiosità e la ritraggono in dipinti bellissimi. E poi c’è il
paesaggio delle Marche del Cinquecento, quasi un’istantanea.
L.C. No, ma è un’idea favolosa questa, voglio dire…
G.M. ……Ognuno che girava con uno sguardo naturalistico nelle Marche del
Cinquecento, bello no?
L.C. Veramente bello. Mi viene da pensare: se è riuscito a vendere questo libro su Gerardo Cibo , che non è certamente economico, significa che c’è da ben sperare sul futuro dell’editoria. Anche nelle Marche.
E questo mi dà un enorme piacere.
Grazie per quest’ intervista.
G.M. Grazie a lei.
